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HYPNOTIC STORIES

Esistono 7 modelli esclusivi, sono il risultato di un'attenta ricerca, dal gusto raffinato,
la cui singola creazione è interamente realizzata a mano.
Da oggi potrai indossare una di queste storie:

 
Sette donne. Nessuna di loro sapeva a cosa stesse andando incontro quando accettò quell’invito. Le buste sigillate erano arrivate come dal nulla, senza timbri postali, indirizzi o altri elementi che permettessero di capire chi, dove e quando le avesse scritte e poi inviate proprio a loro sette. Sulle buste vi erano soltanto i loro rispettivi nomi: Sara, Clotilde, Petra, Inna, Amalia, Olivia, Margot. E un simbolo misterioso, che non avevano mai visto prima: un pugnale stilizzato.Leggi tutta la storia > All’interno ognuna di loro aveva trovato lo stesso invito, scritto in calligrafia elegante e atemporale, che dava loro appuntamento con il destino. Il destino aveva un indirizzo: un vecchio casinò abbandonato, ai margini della città. Quelle donne non si conoscevano, forse non avevano nulla in comune, eppure ognuna di loro accettò l’invito spinta da una forza misteriosa, quasi una consapevolezza: essere in attesa, sul ciglio di una svolta.
Conducevano esistenze che non le rispecchiavano fino in fondo, molti dei loro sogni erano stati delusi o non sapevano più parlare al loro cuore, ma dentro di loro ardeva ancora una fiammella, una speranza, forse una premonizione: c’era dell’altro nel loro futuro, una strada diversa che le stava aspettando.
Il tramonto rosato e odoroso di una serata estiva le trovò riunite nel parcheggio di quel vecchio casinò, di cui ormai non restava che un rudere infestato in parte dalla vegetazione e coperto di graffiti. Le sette donne si scrutavano con curiosità e soggezione, chiedendosi se anche le altre si trovassero lì per lo stesso motivo, se sapessero qualcosa di più su quella situazione enigmatica; eppure mantennero un silenzioso riserbo, in attesa che chi le aveva invitate si manifestasse e chiarisse il motivo di quell’inusuale riunione. Sara, Clotilde, Petra, Inna, Amalia, Olivia, Margot, furono chiamate da una voce femminile proveniente dall’interno del palazzetto stile liberty. Una volta entrate scoprirono che la voce apparteneva a una donna elegante quanto misteriosa – il volto coperto da una maschera veneziana circondata da un ventaglio di piume di gazza – che le aspettava seduta a uno dei vecchi tavoli da gioco. Non volle rivelare il proprio nome: chiese di essere chiamata semplicemente la Regina di Picche.
“Alla mia famiglia è stato rubato un oggetto molto prezioso”, esordì la Regina di Picche. “Un antico pugnale. Un pugnale magico chiamato la Spina Nera, che le mie antenate custodivano per averlo ereditato in circostanze misteriose. Solo una cosa è certa: fin quando è rimasto sotto la custodia del mio casato, il pugnale non ha mai fatto danno ad alcuno. Ma, se finisse nelle mani sbagliate, potrebbe rivelarsi molto pericoloso. Per questo desidero che venga recuperato: non so come potrebbe essere usato il suo potere da chi ne ignori la natura…”.
Fece una breve pausa, poi, leggendo negli occhi sempre più turbati delle sue ospiti, spiegò: “Perché mi sono rivolta proprio a voi? Perché vi ho convocate?”. Con un gesto rapido della mano agile e affusolata, la donna aprì un mazzo di carte sul tavolo verde come fosse la ruota di un pavone bianco, nero e rosso. “Le carte. Le carte mi hanno parlato di voi. Mi hanno rivelato i vostri nomi, il vostro passato, ma soprattutto ciò che si nasconde nei vostri cuori. Solo voi potrete ritrovare la Spina Nera. Se qualcuna di voi non se la sentisse, se aveste paura di tentare, quella è la porta. Se, invece, rimarrete, dovrete essere coraggiose ragazze”.
Rimasero tutte e sette, pur senza avere idea di cosa significasse esattamente mettersi in cerca della Spina Nera. I loro dubbi furono fugati dalla Regina di Picche, la quale estrasse da sotto il mantello un elegante e raffinato ciondolo, identico al simbolo che le ragazze avevano già visto sulle buste degli inviti. La donna fece ondeggiare lentamente e sinuosamente la sottile catenella d’oro, e con essa il pendente. “Le tracce della Spina Nera non si sono perse soltanto nello spazio, ma anche nel tempo. Mi è stato impossibile stabilire chi, dove e quando possa averlo sottratto alla mia famiglia. Solo attraverso l’ipnosi potrò farvi accedere alla grande Memoria senza tempo, e sperare che possiate individuare degli indizi che vi permettano di ritrovarlo nel presente. Perciò ora stendetevi su quei lettini e limitatevi a fissare questo ciondolo. Continuate a fissare il ciondolo e ascoltate attentamente la mia voce…”.
Le ragazze fecero quel che era stato loro suggerito e, ben presto, cullate dalla lenta oscillazione – simile a un orologio a pendola – e accompagnate dalle parole dell’ipnotizzatrice, si ritrovarono ognuna in un luogo e in un tempo diverso.

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SARA

Sara si trovò addosso una blusa in tulle, la brezza fresca e umida del crepuscolo che stava ormai avvolgendo ogni cosa, e un velo d’inspiegabile malinconia – o forse nostalgia – che le attraversava il petto. Muoveva rapida e leggera i suoi passi come una creatura della notte, tra le ombre contorte degli alberi che si preparavano a diventare spettri e incutere un vago timore ai viandanti. Sapeva di essere una principessa. Una principessa indiana. Ma si trovava in un Paese straniero: l’Inghilterra colonialista. Si fermò dietro il tronco di un salice per ascoltare una conversazione appena sussurrata tra due nobiluomini. Uno di loro, Sir Lawrence, era il giovane ufficiale che le aveva rubato il cuore. Solo ora, raccogliendo quelle parole scambiate nell’oscurità, si rendeva conto che non fosse mai stato il suo amore a interessargli, bensì il segreto che Sara portava con sé dalla sua terra. Sir Lawrence l’aveva sedotta per sottrarle un pugnale sacro a Kali la Nera. Un piede dopo l’altro, Sara si mise a correre senza nemmeno vedere dove l’avrebbe portata quel sentiero che si perdeva nel boschetto. I suoi occhi erano coperti dalla patina scintillante di lacrime dolorose come veleno.

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AMALIA

Sotto un cielo di raso blu, come la camicia che indossava, Amalia si affrettava a raggiungere la biblioteca della villa armata di una lanterna. La sua mente energica e laboriosa stava per tuffarsi, ancora una volta, tra le pagine di quei voluminosi libri, in cerca di risposte. Ma questa volta era diverso: ora sapeva dove cercare. Doveva capire dove si trovasse il pugnale, e sperava che le sue nuove scoperte potessero aprire degli spiragli. Da quando suo nonno, Sir Lawrence, le aveva parlato della Spina Nera, non aveva fatto altro che ripeterle di temere quell’oggetto perché racchiudeva un fato maledetto, e lui ne aveva fatto le spese. Ma – ora ne era certa – la colpa non era di quell’antica lama, né di qualche oscura maledizione della dea Kali. Nei libri Amalia aveva scoperto che il coltello non rappresentava morte o distruzione: era un simbolo del discernimento che sbaraglia le illusioni del mondo. Se la Spina Nera aveva portato Sir Lawrence alla pazzia non era a causa di qualche anatema o sortilegio, bensì del senso di colpa che il nonno aveva provato fin dal giorno in cui Sara se n’era andata per sempre dalla sua vita. Amalia estrasse da sotto la camicetta la pagina perduta del diario di Lawrence, appena ritrovata: ora era pronta a ricucire lo strappo e a scoprire la verità.

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PETRA

Ci voleva ben altro che un foro da proiettile nella blusa nera per fermare la bellicosa irruenza di Petra, salda come una roccia sebbene il braccio le sanguinasse! Con un grido che sembrò innalzarsi fino al cielo prese la rincora e saltò dal parapetto della nave, aggrappata a una fune. Atterrò sul ponte del galeone spagnolo appena in tempo per vedere il veliero inglese inabissarsi. Puntò la sciabola alla gola del capitano: “Siete voi l’uomo chiamato el Herrero, il Fabbro? Ditemi, capitano, corrisponde al vero che abbiate rubato a Sir Lawrence un prezioso pugnale indiano?”. Lo spagnolo non negò, ma rivelò alla corsara: “Il pugnale non esiste più. Dovevo farlo sparire, o sarei stato ucciso. Ma sapevo che si trattava di un oggetto magico, perciò ho fuso il suo metallo e l’ho usato per…”. El Herrero stava ancora parlando quando una pallottola lo mise a tacere per sempre. Era stato un uomo del suo equipaggio, probabilmente per evitare che il segreto venisse rivelato a una corsara della Corona Britannica. Ancora una volta, Petra doveva prepararsi a combattere.

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CLOTILDE

Anche Clotilde si considerava una gloriosa guerriera, sebbene fosse un’attrice acclamata e le sue battaglie si svolgessero su ben altro fronte. Era una ragazza consapevole della propria bellezza ammaliante, del suo fascino sensuale che, quel giorno, era messo in risalto dalla blusa di tulle quasi trasparente, sulla quale s’inerpicavano ricami floreali come sul corpo di una Venere. Le erano bastati pochi sguardi e sorrisi per far capitolare il suo avversario, e un ballo al galà per vincere quell’assedio finito tra le lenzuola. Drogandolo con le sue carezze e le parole seducenti, Clotilde era riuscita a estorcere finalmente l’ambito segreto all’ambasciatore spagnolo. L’unico, tra i nobiluomini presenti alla corte francese, ad aver conosciuto personalmente il famigerato capitano Herrero e ad aver solcato con lui i pericolosi mari dei Caraibi. Ed ecco, ora il grande navigatore si era lasciato ammaliare da una sirena… “Volete sapere che fine ha fatto quel metallo? Il ferro della lama della leggendaria Spina Nera? Ebbene, mia cara, non ci crederete! Ne sono stati ricavati degli aghi. Aghi da ricamo”, le rivelò divertito. “Degli aghi? E chi li possiede, ora?” indagò lei. “Oh, questo no, non posso proprio dirvelo!”.

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INNA

Una presenza furtiva scivolava sul cornicione dell’ambasciata. Blusa bianca in organza, una mascherina nera sugli occhi che impediva di riconoscere i lineamenti del bel volto. Inna era una ladra esperta e astuta. Era sempre sfuggita ai moschettieri e alle guardie reali. Da Parigi a Versailles era diventata quasi una leggenda. S’introdusse dalla finestra senza essere vista. Ispezionò i vasti e sfarzosi locali con agilità felina e occhio attento a cogliere ogni dettaglio, ogni sfumatura. Arrivata allo scrittoio di ciliegio aprì i cassetti come se nessuno li avesse mai chiusi a chiave. Dopo lunghe ricerche, finalmente si trovò tra le mani la busta indirizzata al capo dei congiurati. Per la Francia si preparavano tempi di grandi sconvolgimenti politici, ma non erano i piani dell’imminente Rivoluzione a interessare Inna. Cercava la risposta: che fine avessero fatto gli aghi forgiati con il ferro dell’antico pugnale. E la risposta la turbò, giungendole del tutto inaspettata da quelle poche righe d’inchiostro: “Il segreto della Spina Nera è finito nell’acquaforte”. Acido nitrico? Il Segreto era quindi perduto per sempre?

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OLIVIA

La sua era un’anima fragile, delicata, sensibile. La figura snella, sottolineata dalla camicia in gabardine, aveva un che di poetico, come il tocchi leggeri che il pennello retto tra le dita sottili imprimeva alla tela. Quando fu raggiunta da Inna, nel silenzio dell’atelier di Mme. Vigée, Olivia terminò di tratteggiare un drappeggio nella veste di Artemide e posò tavolozza e pennello. “Allora? Siete riuscita a procurarvi quella missiva? Dall’espressione che avete dipinta in volto mi verrebbe da pensare di no. In tal caso devo dedurre che la vostra fama superi di gran lunga le vostre reali capacità”, si lamentò la mandante. Inna scosse la testa: “No, non è per questo. Sono riuscita a trovare la busta, tuttavia temo che le notizie che vi porto non vi piaceranno, Mademoiselle. Leggete voi stessa: il segreto è finito nell’acquaforte”. Olivia rimase taciturna e pensierosa per alcuni lunghi momenti, poi congedò sbrigativamente la sua complice, liquidandola con quanto pattuito. Sapeva cosa significassero quelle parole, non poteva sbagliarsi. Mme. Vigée era dunque coinvolta? Conosceva il destino della Spina Nera ma glielo aveva taciuto? Ad ogni modo non le restava che guardarsi intorno: la risposta doveva essere lì, da qualche parte, nell’atelier. In un disegno all’acquaforte.

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MARGOT

Viso incipriato dal candore di perla, blusa dal fresco motivo floreale, la duchessa Margot si allontanò con discrezione dalla compagnia delle altre dame che chiacchieravano amabilmente nei giardini intiepiditi dalla primavera ormai alle porte. Lei, che per ore aveva posato nell’atelier di Mme. Vigée, era probabilmente l’unica ad aver compreso il segreto di quell’acquaforte depositata tra i tanti croquis e le pregevoli tele a olio. Era una prova per il ritratto che sarebbe stato esporto al Salon. Perché la regina indossava un abbigliamento tanto inusuale e scandaloso? Una semplice camicia da notte… Certo, doveva essere quello l’indizio! Gli aghi magici, i frammenti della Spina Nera, erano finiti in mano alla sarta che aveva confezionato quella veste di mussola. Altrimenti Sua Maestà non si sarebbe mai fatta raffigurare in quella tenuta. Invece la camicetta della regina doveva per forza avere qualcosa di speciale. Così Margot percorse con disinvoltura i corridoi di palazzo fino al luogo dell’appuntamento. “Siete voi la sarta?”, chiese alla donna che l’attendeva leggermente nascosta dietro un grande candelabro d’oro. L’interlocutrice annuì. “Ascoltate”, esordì la duchessa. “Ciò che ho da dirvi è molto importante: qualcuno vuole male alla regina. Io devo assolutamente sapere dove nascondete quegli aghi. Sono disposta a ricompensarvi molto generosamente per questa informazione”.